Negli anni della mia vocazione, sia da seminarista che da prete, ho avuto la grazia di avere un rapporto stretto con i ragazzi e la domanda che sempre emergeva era il senso di credere in Dio. Discussioni a volte estenuanti che, soprattutto nei primi anni, sembravano non arrivare mai ad un responso finale esaustivo, sia per me che per loro. Solo nel tempo ho capito qual era l’inghippo: la fede è una esperienza, un incontro e non lo puoi spiegare, lo puoi solo raccontare e soprattutto lo puoi vivere. Non posso chiedere ad un ragazzo perché ha scelto proprio quella ragazza per innamorarsi, perché qualsiasi risposta, messa sul piano razionale, sarebbe confutabile e discutibile. L’amore è scintilla, inspiegabile perché intima e personale. Così è la fede e da quando ho realizzato questo, ho smesso di cercare di convincere razionalmente, in dibattiti eterni e a volte snervanti, coloro che me ne chiedevano merito. La fede nasce da un incontro che ti cambia la vita, dove Dio non è più un’entità suprema e astratta ma è una esperienza concreta che ha uno o più momenti specifici che la sanciscono, proprio come la relazione di una coppia, e ci chiede solo di essere disponibili e aperti, desiderosi di incontro e di scoperta. Viviamo un tempo dove la razionalità ha preso il sopravvento su tutto e tutto è ridotto ad essere vissuto secondo criteri di conoscenza e comprensione prettamente umana. Ciò che è “altro” rispetto alla realtà tangibile che siamo abituati a considerare, non è, non esiste perché non è spiegabile o riscontrabile da un raziocinio molto pragmatico e a volte anche spiccio. Eppure siamo anima, siamo sentimenti, siamo emozioni che non hanno spiegazione uguale per tutti e non hanno dinamiche matematiche e scientifiche. Vivere senza questo sguardo aperto, senza sguardo dell’anima sul mondo, su noi stessi e sugli altri, significa vivere a metà, perché vuol dire “castrare” una parte preziosa e importante di noi, di tutti noi.
Gesù chiede di amare Lui al di sopra addirittura degli affetti più intimi come quelli dei propri famigliari. Non è una questione di gerarchia quella che Gesù vuole imporci, è semplicemente una questione di capacità di vivere anche l’amore terreno, prezioso e unico, con quella libertà del cuore che solo Lui sa insegnarci. Se amiamo da uomini, da esseri prettamente umani, rendiamo l’amore un possesso e un diritto. Ma se amiamo come Amati da Lui, allora amiamo in modo libero e liberante, amiamo come servitori dell’altro e della sua luce che si libra alla vita. Non c’è razionalità in questo ma solo esperienza di un Amore che ricevo, gratuito e incessante, e che ridono proprio perché vissuto nella gratitudine e nella gratuità. Ce lo insegna anche la natura: ogni cosa è dono, anche quella che mi guadagno con il sudore e la fatica, e come tale va vissuta cogliendone il bello, il buono, ridonando il servizio d’amore di cui siamo capaci, e lasciandola poi libera di essere se stessa. L’acqua, la terra, le piante, gli stessi frutti, non sono proprietà ma dono che sono chiamato a coltivare, a curare, ad usare ma nel rispetto di ciò che sono e di ciò di cui hanno bisogno. Quando sfrutto senza ritegno la natura, lei si ribella e ci si ritorce contro, e stiamo vedendo proprio questo processo, sempre più forte e preoccupante.
Trovo bellissima la prima lettura dal libro della Sapienza: non possiamo granché nella comprensione del mondo, della natura e di noi stessi, se non apriamo la mente e il cuore alla conoscenza di Colui che tutto ha creato e governa. Sono inutili e sterili le discussioni che vogliono racchiudere in definizioni scientificamente valide ciò che è legato solo alla comprensione di un cuore abitato e per questo libero. Eppure non lo abbiamo capito e anzi, più ci scopriamo capaci di scoperte e invenzioni che ci facilitano la vita, più ci allontaniamo da Lui e dalla comprensione vera di ciò che siamo e di ciò che ci è stato affidato perché ne avessimo cura. Il Creato non è nostro, ne siamo solo i custodi, come siamo i custodi della luce che brilla nel cuore delle persone che amiamo, che siano i nostri coniugi, conviventi o fidanzati/e, che siano i nostri genitori o che siano addirittura i nostri figli. Noi non siamo possessori ma custodi e questo significa vivere, condividere e lasciare andare, lasciare liberi, con il cuore gonfio di gratitudine per quanto dato e ricevuto. Come San Paolo nella seconda lettura che si separa dal fedele Onesimo seppur il loro rapporto fosse intenso e profondo.
Viviamo un tempo dove la sete di possesso accende e alimenta guerre, distrugge il creato e a volte distrugge anche la bellezza e la purezza di quelle relazioni che dovrebbero solo profumare di amore e parlare la dolce lingua della meraviglia e del rispetto. Le letture di oggi sono un faro che illumina il cammino del nostro cuore, perché chiunque vi si affaccia e chieda di abitarlo, possa trovarne un respiro di vita e uno scrigno rispettoso della propria luce. Chiediamo questa Grazia mentre non smettiamo di alimentarci del Suo Amore che rende liberi e liberanti.
Sap 9,13-18 Sal 89 Fm 1,9-10.12-17 Lc 14,25-33